regia: Paolo Sorrentino; sceneggiatura: Paolo Sorrentino; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Giogiò Franchini; scenografia: Lino Fiorito; musica: Pasquale Catalano; interpreti: Toni Servillo (Titta Di Girolamo), Olivia Magnani (Sofia), Adriano Giannini (Valerio), Raffaele Pisu (Carlo), Angela Goodwin (Isabella), Diego Ribon (il direttore), Giselda Volodi (una cameriera), Giovanni Vettorazzo (il signor Letizia), Anna Valeria Dini (la lettrice), Gianna Paola Scaffidi (Giulia), Antonio Ballerio (il direttore di banca), Gilberto Idonea, Gaetano Bruno (i sicari), Enzo Vitagliano (Pippo D’Antò), Nino D’Agata (un mafioso), Vittorio Di Prima (Nitto Lo Riccio); produzione: Francesca Cima, Nicola Giuliano, Domenico Procacci per Indigo Film/Fandango/Medusa; distribuzione: Medusa; durata: 100’;origine: Italia, 2004.
Da otto anni Titta di Girolamo vive pressoché recluso in un anonimo albergo di un’anonima cittadina della Svizzera italiana. La sua vita è regolata da consuetudini, gesti e movimenti che si ripetono sempre uguali, tra la camera e il bar, il ristorante e il salotto dove si concede qualche partita a carte con una coppia di anziani (gli ex proprietari dell’albergo caduti in disgrazia). Regolarmente, ogni mercoledì mattina alla stessa ora, assume una dose di eroina, così come altrettanto regolarmente riceve una valigia piena di soldi – che egli, senza neanche aprire, consegna in banca – intorno alla quale si condensano
tutti i misteri, mostruosi e inquietanti, legati al suo passato e ai suoi rapporti con il mondo della mafia e delle banche, e che gradualmente si rivelano e si compongono. Nella sua vita monotona e immutabile entra un giorno, scompaginandola, il sorriso di una ragazza, Sofia, la barista dell’albergo, con cui lentamente Titta si lascia coinvolgere sentimentalmente. Ma le “conseguenze” di quell’amore, se da un lato sembrano riaprire una partita esistenziale che pareva ormai chiusa, dall’altro, per lui, si dimostreranno fatali.
È una vita sospesa quella di Titta, sospesa nel vuoto come la figura del suo vecchio e lontano amico d’infanzia a cui egli, negli attimi che precedono la sua tragica fine a cui si è lasciato condannare, rivolge il proprio pensiero, e che le immagini conclusive del film mostrano su un traliccio dell’alta tensione in alta quota, intento nel proprio lavoro, sperduto tra le silenti e innevate cime montuose. È una vita sospesa nell’immoto limbo della solitudine e della segregazione, sul confine della non esistenza. Sprofondato nella monotonia e in una imperscrutabile malinconia e indifferenza, Titta è l’uomo in meno, l’uomo che non c’è, l’uomo senza emozioni, senza presente e senza futuro. Staziona solitario in un albergo poco frequentato, accompagnato dalle sigarette sempre accese e dal silenzio, interrotto saltuariamente da parchi scambi di battute con chi cerca di scalfire il suo isolante involucro che lo separa dall’esterno. Intrattiene frettolose e distaccate conversazioni telefoniche con la famiglia, anch’esse freddo rituale, come la settimanale assunzione della dose di eroina che pratica con ferrea periodicità o il consuetudinario trasporto delle valige in banca, di un’esistenza rigidamente disciplinata, come il caveau in cui si reca a portare i soldi. Di questo mondo ovattato, inerte e vuoto, simile ad un acquario, dove i gesti e i pensieri sono deprivati di senso, in cui il protagonista è immerso – come punizione che quel potere occulto e minaccioso di cui è succube gli ha inferto – Sorrentino restituisce con grande maestria lo spessore attraverso i silenzi, le atmosfere asettiche, gli sguardi, i suoni, i rumori (il prolungato fruscio delle banconote conteggiate a mano dai solerti impiegati della banca), considerati anch’essi come materiale compositivo, contribuendo a sottolineare il senso profondo della situazione narrativa, quell’intorbidimento e quell’indurimento da cui Titta, taciturno, composto, risoluto, elegante e scostante, si è lasciato pervadere. Vetri, finestre, barriere, di fronte a cui la sua figura è sovente posta, vengono scenograficamente e visivamente a sottolineare l’inattingibilità dell’esterno a cui egli non può, e forse non vuole, accedere. Esterno che tuttavia, attraverso piccoli segnali, fa talvolta irruzione in quell’assurda gabbia di abitudinarietà e ripetitività con cui Titta cerca di non procombere nel precipizio del nulla su cui è proteso: la visita del fratello che menziona l’amico di vecchia data, l’incursione improvvisa di due sicari della mafia, e, soprattutto, la relazione, anche se solo appena accennata, con la barista dell’albergo, che produce una crepa nel rigido, coriaceo e apparentemente infrangibile schema mentale e comportamentale del protagonista. Piccoli eventi che lo inducono a dischiudersi dal torpore, ad esporsi, ad uscire dal suo liquido amniotico-anestetico, a giocare un’ultima, decisiva partita per il riappropriamento di una vita rubata. Ma nel gioco, e nella vita, come Sorrentino asseriva già nel suo primo film citando una frase di Pelè, «il pareggio non esiste».
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