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Il divo

Il divo

Il divo

 

regia: Paolo Sorrentino; sceneggiatura: Paolo Sorrentino; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Cristiano Travaglioli; scenografia: Lino Fiorito; musica: Teho Teardo; interpreti: Toni Servillo (Giulio Andreotti), Anna Bonaiuto (Livia Andreotti), Piera Degli Esposti (la signora Enea, segretaria di Andreotti), Paolo Graziosi (Aldo Moro), Giulio Borsetti (Eugenio Scalari), Flavio Bucci (Franco Evangelisti), Carlo Buccirosso (Paolo Cirino Pomicino), Giorgio Colangeli (Salvo Lima), Alberto Cracco (don Mario), Lorenzo Gioielli (Mino Pecorelli), Gianfelice Imparato (Vittorio Sbardella), Aldo Ralli (Giuseppe Ciarrapico), Giovanni Vettorazzo (il giudice Scarpinato), Cristina Serafini (Caterina Stagno), Achille Brugini (monsignor Fiorenzo Angelini), Fanny Ardant (la moglie dell’ambasciatore francese), Michele Placido; produzione: Francesca Cima, Nicola Giuliano, Andrea Occhipinti, Arturo Paglia, Isabella Cocuzza per Indigo Film/Lucky Red/Parco Film; distribuzione: Lucky Red; durata: 110’; origine: Italia, 2008.
 
 
 
Dalla fine dell’ultimo dei suoi sette governi, nel 1992, allo sfaldarsi della sua corrente e all’inizio del processo di Palermo, nel 1996, che lo vede imputato per associazione mafiosa: il film ripercorre l’ultima parte da “divo” di Giulio Andreotti, il politico più influente che ha determinato le sorti del paese italiano per oltre mezzo secolo. Più influente ma anche più ambiguo, segreto, misterioso, complesso, imperscrutabile, che tartarughescamente si è infiltrato in ogni piaga e in ogni interstizio del Potere nostrano, sospettato di tutto perché capace di tutto, credente in un dio che ammette l’uso del Male a fin di Bene. Stragi, suicidi eccellenti, assassinii, rapimenti, strangolamenti, avvelenamenti, sparizione di personaggi scomodi, accuse dei pentiti della mafia: in tutto egli sembra essere coinvolto, su tutto sembra esserci lo zampino della sua figura, onnipotente, piovresca, silenziosa, insinuante, solitaria, isolata, inamovibile, gelida, orchestratore e manovratore abilissimo e occulto delle storie sue e delle controstorie altrui.
 
Le grandi orecchie oltremodo distanziate dal cranio, la sagoma ingobbita, china sul tavolo, la montatura eccessiva degli occhiali, la faccia trapunta da aghi per la cura dell’emicrania. Come l’usuraio Geremia ne L’amico di famiglia, anche la figura di Andreotti, ne Il divo, assume già dalla prima inquadratura i connotati di una maschera grottesca, quella del potere, spettrale, lugubre, vampiresca (lo vediamo emergere lentamente dall’oscurità), ad enucleare e sottolineare metaforicamente l’intento che sottende l’intero film: offrire del personaggio andreottiano un ritratto che oscilla tra il grottesco, il surreale e il documentaristico, tra il pubblico e il privato, in un flusso di immagini al contempo verista e immaginario, che implica
la biografia documentata e anche possibile. Come Geremia, anche il “divo” Giulio è un “amico di famiglia”: di famiglia cristiana, di famiglia mafiosa. Come lui è solito dispensare, sibilando e con sguardo fisso, perle di massime di vita e di cinismo («A pensare male degli altri – recita una tra le più celebri – si fa peccato ma si indovina»). Misterioso, glaciale e distaccato, è la maschera tetra di un potere oscuro che si perpetua, il cui vero volto rimane nella penombra, inattaccabile, invisibile, nascosto (come nell’inquadratura in cui, poco più avanti, è colto in mezza figura frontale, nella penombra della cucina del suo appartamento, mentre prende un’aspirina, con il lampadario acceso che gli copre interamente la testa). L’Andreotti sorrentiniano è una sorta di automa, un Golem apparentemente privo di qualsiasi reazione emotiva, che sembra non provare mai dolore, né affetto, né emozione. Il sismografo della sua emotività, perennemente inerte, si aziona, registrando lievi oscillazioni, solo nei momenti in cui si materializza, sotto forma di incubo, lo spettro di Aldo Moro, il cui rapimento e la cui successiva uccisione da parte delle Brigate Rosse pesano su di lui come un macigno impossibile da rimuovere. Come fendenti, al pari delle frequenti emicranie, le parole dello statista – provenienti dal proprio memoriale e rimarcanti proprio la sua assenza di fervore umano – tormentano le sue notti insonni. Rievocando fatti pubblici e operando incursioni
nella sua privata, lo sguardo di Sorrentino (e della macchina da presa) “penetra” nella stessa testa (sovente dolorante) del suo personaggio, portando alla superficie squarciincubici, lacerazioni mentali, frammenti di visioni (l’iterata immagine dello skateboard che attraversa un corridoio o scivola su una cavità cilindrica per andare ad esplodere nell’immagine successiva) o schegge di autocoscienza e fantasmi dell’anima: come nella sequenza della confessione, di potente forza d’urto, in cui Andreotti, seduto al centro di una stanza, solo e illuminato da forti luci, prima pacatamente poi sempre più ansiosamente ed esagitatamente, smarrendo la consueta flemma e l’abituale compostezza, si autoaccusa di una lunga serie di fatti e di misfatti. Tra le due dimensioni, quella esteriore e quella interiore, quella reale e quella immaginifica, l’obiettivo si muove costantemente, nella strutturazione di una materia narrativa che procede per ellissi, accelerazioni, arresti, dilatazioni, sovrapposizioni, parentesi, capitoli che si pongono come tessere di un puzzle che però non potrà trovare completo compimento. Wellesianamente, in un gioco di luci e di ombre, Sorrentino rinuncia a dare giudizi netti, lasciando che l’enigma
resti enigma. Nell’inquadratura conclusiva la macchina da presa si sofferma sul primo piano frontale del suo personaggio, seduto sul banco degli imputati nell’aula giudiziaria del tribunale palermitano, immobile e impassibile come sempre, in un’immagine che per certi versi rinvia a quella finale di Citizen Kane, nella quale l’obiettivo si arresta sul cartello appeso al cancello della villa del potente magnate Kane: «No trespassing». L’accesso è vietato, e irrisolvibile rimane forse il mistero. 
 
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