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Contributi Critici - Visti, stravisti, mai visti

Contributi Critici - Visti, stravisti, mai visti

Contributi Critici - Visti, stravisti, mai visti

 

Visti, starvisti, mai visti
 
Manuali d’amore, promesse d’amore, amori ritrovati, amori su misura, amori assenti, amori che non bastano, amori che ritornano, primi amori,ore senza l’amore, arrivederci amore
ciao, ma l’amore… sì, quale amore, l’amour caché, voce del verbo amore, amore bugie e calcetto, benvenuti in amore, parlami d’amore, scusa ma ti chiamo amore…: già i titoli, limitandoci solo alle pellicole prodotte nelle ultime stagioni, definiscono la grande rotta – governata e contrassegnata dai criteri della popolarità, dall’affermazione di una sorta di epica dell’intimo, dall’ispessimento del tema dellafamiglia, dalle dinamiche interne al microcosmo domestico, da alcuni elementi agevolmente identificabili tesi a rispecchiare e interpretare il reale – su cui in modo sempre più deciso procede il cinema italiano. Il quale, ormai da oltre un cinquantennio, naviga sul grande oceano della commedia – dai confini estetici e concettuali labili e indefiniti – fluttuante e cangiante, soggetto alle alte e alle basse maree
storiche, interessato da progressivi assestamenti e nutrito dai numerosi affluenti che in esso, confondendosi e dissolvendosi, si riversano. È un cinema che trita e miscela generi e sottogeneri, pratiche autoriali e tentativi amatoriali, strategie ponderate e tecniche improvvisate, argomenti e toni diversi, generando un cocktail stilistico-espressivo-tematico in cui solo saltuariamente si indovinano gli ingredienti e le dosi giuste. È un cinema che talvolta appare innervato da un galvanizzante spirito di iniziativa, da un incoraggiante ricambio di maestranze, da una produzione quantitativamente rilevante; ma che è, in pari tempo, dominato ancora da una caotica articolazione, da una inquietante inafferrabilità, dalla difficoltà di consolidamento delle singole poetiche, dalla pigrizia o incapacità di aprire e percorrere inesplorate strade tematiche e stilistiche, da avvilenti criteri distributivi, da una situazione di invedibilità e invisibilità, da una “leggerezza” che talvolta diviene davvero “insostenibile”. Un cinema talvolta contrassegnato dal “nuovo che avanza” - che ha portato a piacevoli, quando non sorprendenti, scoperte - ma anche, talaltra, dal vecchio che regredisce, dall’appartatezza e dal sommerso che occultano l’emerso e l’emergente, dalla percorrenza di strade già battute e setacciate; un cinema di genere che talvolta rasenta il degenere, che non riesce a sollevarsi oltre “tre metri sopra il cielo”, tra “albekiare” e “notti prima degli esami”, “mattini che hanno l’oro in bocca” e “notti senza fine”, o che perlustra pedissequamente i territori della cronaca o delle problematiche sociali, senza però quella capacità di trasporre la realtà su piani diversi, poetici o metaforici. Eppure, a ben vedere, in tale vasto mare della consuetudine, negli ultimi anni si è posta in viaggio anche una schiera di giovani autori decisi a intraprendere rotte differenti, andando, per citare il titolo di un film di Stefano Reali, “in barca a vela contromano”, rivelandosi capaci, da un lato, di misurarsi con i maestri del passato e con quelli attivi consacrati, i loro fratelli “maggiori”, e, dall’altro, di individuare  strade espressive al livello di linguaggio, strutture narrative, tensione civile: di aprire cioè squarci – in un involucro fatto di reiterazione di modelli consolidati, di uso e abuso del comico, di manieristica poeticità, di “piacevolezza” e di fievole garbo – o quantomeno degli spiragli, delle aperture, degli sguardi non stereotipati verso insondati o non sufficientemente È il caso, anzitutto, di Paolo Sorrentino, autore di punta della nuova generazione, la cui opera – finora articolata in quattro lungometraggi rappresentanti altrettanti tasselli di un discorso poetico coerente e personalissimo – pullula di segni, motivi, atmosfere e allusioni ricorrenti che ne determinano l’unità, appunto, poetica, la continuità stilistica, l’identità autoriale. È il caso di Alessandro Angelini, capace di sviscerare, in L’aria salata, evitando la retorica e gli eccessi di pathos, le tensioni di una realtà complessa, non solo quella familiare (il difficile e inconciliabile rapporto tra padre e figlio), ma anche quella di un mondo chiuso e rimosso quale è il carcere. È il caso – per fare un altro esempio di cinema d’autore che ha avuto con il pubblico un rapporto non solo teorico – di Andrea Molaioli, ex aiuto regista di Moretti, abile nello scandagliare, in La ragazza del lago, adottando il registro del giallo-noir come lente di ingrandimento, la cupa normalità della provincia italiana e i suoi orrori. È il caso, ancora, dei giovani autori di cui questa rassegna ha voluto presentare le loro opere, esempi di una pratica cinematografica “altra e diversa”, capaci di accordare il loro impegno contenutistico a soluzioni formali e connotazioni stilistiche innovative, espressione di un fenomeno – quello degli esordi o delle opere seconde – che nelle ultime stagioni ha assunto anche in termini meramente quantitativi una grande rilevanza e fervore. Sempre più folta, infatti, appare la schiera di autori giovani (o anche meno giovani, come Gianni Di Gregorio, il quale ha recentemente e felicemente esordito, cinquantottenne, con Pranzo di ferragosto) che approdano al lungometraggio con alle spalle una sufficiente esperienza professionale, maturata nel video, nel documentario, nel cinema corto, i quali, nel loro approccio visivo con la realtà colta da angolazioni che tendono a sfuggire al cinema ufficiale (con il privilegiamento delle periferie, urbane o geografiche, delle inquietudini giovanili, di un tessuto sociale rarefatto), si affidano a un’iconografia non codificata e convenzionale e a una cura e a un’attenzione particolare all’immagine. Sono opere, le loro – diverse per intenti e per esiti, per modalità produttive e per ambizioni - che tuttavia risentono, nella loro fase distributiva, delle anomalie e delle logiche perverse del mercato cinematografico, che sempre più concede spazio al cinema hollywoodiano e a quello commedial-popolare. Del centinaio di film annualmente prodotti (nel 2007 sono stati 105), solo la metà, o quasi, riesce a trovare un’uscita (talvolta semiclandestina) e approdare così nelle sale, almeno quelle delle città capozona. Della cinquantina di pellicole distribuite nell’arco della scorsa stagione, solo 8 hanno superato la soglia dei 5 milioni di euro di incasso (tra cui Il divo, Gomorra e Caos calmo, insieme ai titoli più prevedibilmente commediali), una decina ha oltrepassato il muro di un milione (quasi tutti di impronta comico-sentimentale-adolescenziale). Per molti altri, la maggioranza, è un disastro o quasi; se alcuni film stentano a decollare, altri non riescono nemmeno a partire, rimanendo ben al di sotto dei 50.000 euro o, addirittura, dei 10.000. Sovente penalizzato dal sistema produttivo e/o distributivo che regola il circuito commerciale delle sale (alcuni film escono dal letargo produttivo nella stagione estiva, allorché i pochissimi cinema rimasti aperti acquistano sembianze di luoghi catacombali e irreali, rifugio solo per spauriti gruppetti di cinéphiles irriducibili), il cinema italiano d’autore continua a rivelare tutte le sue difficoltà di comunicazione con il pubblico. Come una canna al vento, esso tende a piegarsi, spesso a rompersi. Suscita sospetto e distacco, anche nei casi in cui la qualità dei film meriterebbe un atteggiamento perlomeno di curiosità. È un cinema, quello italiano, fatto di film, appunto, visti stravisti mai visti, costretto sovente a rimanere in “apnea”, lagunare e paludoso, nel quale le isole o gli atolli dell’autorialità, pur prolificando e aumentando numericamente, sono circondati da vaste sacche di acqua stagnante determinate da una marcata erosione della qualità cinematografica e da uno iato tra le promesse e i risultati, i progetti e le attuazioni. Un cinema sempre in bilico fra incoraggianti segnali di ripresa e deludenti verifiche, milionari successi (soddisfacenti spesso solo per i produttori) e cocenti delusioni, buone riuscite e caporettiane disfatte, convenzione e innovazione, mediocrità e autorialità. Quello tra il (giovane) cinema italiano e il (giovane) pubblico rimane un rapporto difficile, costellato di diffidenze reciproche, di comuni incomprensioni, di una generale allarmante afasia; un rapporto che diviene più conciliante solo in talune occasioni (attraverso soprattutto i prodotti commediali, con i quali è meno difficile veder lievitare i dati dei borderò), e che, per essere ricucito in modo più saldo e duraturo, necessiterebbe forse che lo spirito del “giovane” si identificasse in misura maggiore, in entrambe le parti, con quello del realmente “nuovo”. Affinché la cinematografica “nouvelle vague”, determinata essenzialmente da quei cineasti che riescono con coerenza a sviluppare i propri autoriali itinerari artistici, sia meno tenue, e l’orizzonte di un Italian Renaissance meno sfuggente e lontano.
 
Franco Vigni
 
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