Se il cinema si vede
Le previsioni volgono al bello: per il 2008 la fetta di mercato del cinema di produzione italiana dovrebbe attestarsi attorno al 32-33%, migliorando ancora il buon andamento del 2007. Possiamo ritenerci contenti e inneggiare alla resurrezione del “made in Italy”, facendo tesoro dei confortevoli dati del botteghino? Al recente Festival internazionale del film di Roma erano ben 21 le pellicole italiane sparse nelle cinque sezioni della kermesse. Allora, tutto bene? Nemmen per sogno. Chi si accontenta di dare uno sguardo alle cifre degli incassi e si limita a dedurre da esse, e da esse soltanto, i tratti del panorama, come minimo ha la vista corta. Che questa ripresa esista non c’è dubbio ed è una fenomeno non banale, ma di per sé attesta ben poco. “Gomorra” e su un piano assai inferiore “Il divo” sono due titoli che rincuorano, due opere d’autore che aprono nuove prospettive anche di linguaggio, ma per il resto la situazione non consente entusiasmi facili. Se quel 30% e più della torta si scompone, sarà facile constatare che maggioritariamente risulta dalla serie delle commediole giovanilistiche, di astuta fattura ma piuttosto vacue. E se si va ancora più a fondo sarà agevole rendersi conto che una buona metà della fortuna ottenuta si deve ai filmacci natalizi, che hanno preso il posto un tempo proprio dell’avanspettacolo più trito e scollacciato. Bisogna, allora, intendersi: che esista una grossa quota di mercato occupata da film di chiaro intento commerciale e che questa tipologia di produzione, grevemente casereccia e di immediato riscontro, riscuota ampio gradimento non è un guaio. In un sistema che funzioni non ci si dovrà scandalizzare più di tanto se esiste un’area piuttosto collaudata in grado di ottenere il sicuro favore di un pubblico propenso ad un consumo leggero e paratelevisivo. Però leggendo i numeri si deve avere l’onestà di dire quali realtà registrano e quali tendenze fanno intravedere. Non è neppure il caso di meravigliarsi se hanno uno spazio così rilevante ingredienti tanto appetibili e appariscenti. Ma per quanti sono i film italiani visti – il più delle volte solo in patria – quanti sono quelli che non riescono a circolare oltre il circuito dei festival – se va bene – frequentati dagli addetti ai lavori? Quanti sono i titoli che ottengono una decente visibilità? Negli ultimi anni i film prodotti in Italia o di prevalente coproduzione italiana sonopiù o meno un centinaio. Ebbene: se si scorrono le classifiche non credo si possa dire che son più d’una trentina i titoli nazionali, tra quelli che son riusciti a raggiungere una consistente fetta di pubblico. Ammettiamo pure che per alcuni sia preferibile l’ombra dell’inedito. Ma per prove talvolta di grande dignità espressiva e di effettiva ricerca stilistica è accettabile che non riescano ad avere accesso ad una qualche sala? Questo è un nodo drammatico, che nessuna euforia basata sui bollettini statistici scioglie. E il discorso vale anche per la maggior parte dei film europei, malgrado gli sforzi lodevolissimi di una parte della distribuzione e dell’esercizio, sostenuti dal programma MEDIA attraverso Europacinemas e da altri analoghi strumenti. Ebbene: soltanto se tra distribuzione e esercizio si troverà un equilibrio che esalti libertà di scelta, qualità delle opere e differenziazione degli spazi si faranno seri passi in avanti. Coi tempi che corrono l’impresa è più che ardua. L’esercizio si trova oppresso da – asservito a – una distribuzione obbligante e minacciosa. Neppure il “cinema d’essai” riesce a conservare più di tanto i caratteri che dovrebbero contrassegnarlo. I tenimenti hanno una scansione meccanica, consentono poco o nulla di interpretativo e di specifico. Negli ultimi cinque anni si calcola che in Italia abbiano chiuso non meno di quattrocento sale cittadine. Se nessuno può pretendere che una società privata tenga aperta una sala quando, già in partenza, non è messa nelle condizioni di sopravvivere, è chiaro che occorre provvedere diversamente: costruendo con autentica convinzione e con concorrenti investimenti pubblici un circuito di sale dedite ad una programmazione varia, tale da accogliere, tra gli altri, i buoni film destinati altrimenti a restare nel dimenticatoio. Non serve a nulla demonizzare i multiplex che, in numero di 200, hanno realizzato in dieci anni qualcosa come 1800 nuovi schermi. Si tratta di regolare questo tipo di sviluppo accompagnandolo con una riqualificazione mirata di altri luoghi. E non – si badi – vagheggiando un circuito alternativo, che abbia per scopo chissà quali eversive finalità, ma perseguendo strategicamente un’articolazione del circuito o, se si preferisce, la definizione di più circuiti in sintonia con un mercato da declinare al plurale. Esistono mercati e non il mercato, esistono pubblici e non il pubblico: da sempre. E questa realtà, oggi ancor più complessa e frammentata di orientamenti e gusti, rifiuta di farsi ingabbiare dentro un’unicità di gestione e tanto meno dentro un calendario standardizzato e eguale in ogni dove. L’opera cinematografica soffre oggi di svantaggi sempre più vistosi. In una libreria trova posto il libro del grande editore, magari scritto dal giornalista televisivo di turno, e – a stento – il libro edito da una piccola case editrice specializzata e seguita da una precisa fetta di fedeli lettori. Ogni film invece si pretende percorra un identico binario, fatta eccezione per quelli più fortunati che possono ambire alle poche sale riservate nelle grandi città. Per attuare un disegno del genere sono necessari robusti investimenti pubblici – il momento non è dei migliori –, i quali in convergenza con quelli privati affrontino con lungimiranza una condizione che ogni giorno va degradandosi. L’esperienza del “Circuito cinema” rivela limiti pesantissimi, del tutto al di sotto delle attese. Certo: senza una “rivoluzione culturale” nell’audiovisivo, senza, per esempio, introdurlo a pieno titolo come materia nei processi educativi e formativi, una minima inversione di tendenza sarà impossibile. Eppure è indispensabile, se si vuol salvare la sala quale momento peculiare dell’uscita di un film o almeno come uno dei momenti fondamentali. È inutile finanziare certe opere se poi non si aiutano a circolare, se non ci si cura della loro fruibilità. Se penso ad una sala modello mi vien fatto di citare l’Arsenale di Pisa, dove una lezione sialterna alla visione di un film recente, dove la riproposizione di un film storico è in agenda al pari di una pellicola sperimentale o di un documentario di intelligente impegno. Sullo sfondo sta
la lotta contro l’eccesso di concentrazione duopolistica, Rai-Mediaset, che il mondo del cinema mutua pari pari dall’universo televisivo. E si smetta con l’accusare la cosiddetta pirateria informatica dei mali che rendono tanto difficoltoso il futuro del cinema. I pirati aumenteranno se non si sarà in grado di eccitare una nuova attenzione verso la pluralità espressiva che i film incarnano. Quando riescono – se riescono – a trovar luce, a farsi visione.
Roberto Barzanti